"Datti una risposta da solo"

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Presidente Bonaccini, so quanto i giornalisti sappiano essere fastidiosi, a volte. Fanno domande insensate, non cercano risposte, ma reazioni scomposte. E se taci, che davvero sarebbe l’unica cosa saggia, t’inseguono, poi montano tre minuti di inseguimento e si credon cronisti d’assalto. Altro che Woodward e Bernstein, loro puntano più su, verso il Gabibbo. A scuola han letto che la stampa deve dar fastidio al potere e han frainteso; invece di dare un’occhiata agli situazione degli appalti in Regione, vanno a punzecchiarti ai comizi. Perché fare i cani da guardia della democrazia, quando puoi esserne la zanzara. Non sono tutti così, ma fin troppi.

Presidente, so che lei è un po’ meglio di come appare in un video di due minuti dove non sa più rispondere a una cronista che non sa cosa domandare. Quanto le debba suonare paradossale l’accusa di militare in un partito dittatoriale - quando per candidarsi in regione ha dovuto battagliare anche coi renziani compagni di corrente. Però doveva proprio darle un buffetto sulla guancia? E poi. Chiuda gli occhi e si riascolti. So quanto può essere fastidioso riascoltare la propria cadenza modenese, ma ci provi. Si domandi cosa le ricorda. E si dia una risposta.

Presidente, non sarà dittatoriale il suo partito, ma non lo riconosco. M’avessero impacchettato vent’anni fa, e risvegliato oggi, ascoltandola io dedurrei che i leghisti si sono presi pure l’Emilia. Mi sbaglierei? Me lo sono chiesto. E un po’ mi sono già risposto.
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Staino e il web

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Per fortuna che c'era Staino, giovedì scorso alla Festa Democratica di Urbino. Per fortuna perché dovevamo parlare di web e comunicazione, e il momento era particolare: Bersani aveva appena parlato di fascisti del web, aveva dato del "pirla" su twitter a chi lo accusava di essere contro il web. Ma poi alla fine cos'è il web? Cosa significa essere fascisti sul web invece che altrove? In che modo il web aggiunge aggressività al dibattito politico?

Per fortuna che c'era Staino, perché noialtri supposti esperti, complice anche l'ora tarda, non è che avessimo molte cose nuove da aggiungere: il web non è necessariamente migliore o peggiore di qualsiasi altro ambiente; non è intrinsecamente violento, ma è un ambiente immateriale in cui siamo quasi sempre privati del linguaggio del corpo dei nostri interlocutori; da cui i frequenti fraintendimenti, l'impulso a calcare i toni per renderli più evidenti, a parlare più colorito, a passare più velocemente a quegli insulti che, specie quando siamo anonimi, possiamo lasciare senza conseguenza. Quelle che una volta chiamavamo "autostrade informatiche" assomigliano un po' alle autostrade vere, dove spesso l'unico modo per capirci è sfarfallare gli abbaglianti, pestare il clacson, esibire gesti osceni. Tutto già studiato e ristudiato, ma non spiega il perché questo tipo di aggressività investa anche personalità pubbliche, che non affidano le loro comunicazioni all'istinto - perlomeno non dovrebbero. Più facile pensare che stiano semplicemente mimando gli atteggiamenti urlati dei loro fan: forse stanno imparando a urlare da noi utenti, magari a furia di leggere i commenti inviperiti che lasciamo sotto qualsiasi messaggio, si sono convinti che sul web si fa così... (continua sull'Unita.it, H1t#142).

È stata una fortuna che ci fosse Staino, perché a un certo punto io – che ero in cartellone con l’imbarazzante etichetta di blogger – mi stavo incartando in un discorso paradossale in cui affannosamente spiegavo che quello di Beppe Grillo non è un vero blog, malgrado resti il più letto in Italia (e uno dei più letti al mondo); che il suo modo di comunicare non è particolarmente tipico del web o adatto al web. Non è una questione anagrafica, ma di metodo: il web è un insieme di discussioni, mentre Grillo lo usa semplicemente per amplificare i suoi monologhi. La vera differenza tra il web e i media che conoscevamo fino a qualche anno fa è la possibilità di interagire e di discutere. Grillo rimane un grande monologhista, ma non discute. Ha mai veramente risposto a una domanda che gli sia stata rivolta sul web? Alla critica di un qualsiasi commentatore?
 
Meno male che c’era Staino, che tirava su l’umore con le sue vignette e ci teneva svegli con le sue storie, tra cui una che spiega meglio di mille parole quello che non riuscivo a spiegare. Due anni fa, quando in un incidente aereo morirono 96 membri del governo polacco, Staino disegnò una vignetta controversa che ebbe il dubbio onore di essere riprodotta (ingrandita) sul Giornale, sotto il titolo “VOGLIONO MORTO BERLUSCONI” (la battuta originale era un lievemente più sottile “a chi tutto e a chi niente”. L’ingrandimento rese ancora più evidente l’e-mail di Staino, a cui cominciarono ad arrivare centinaia di messaggi indignati, incazzati, quel genere epistolare che in inglese ha già il suo nome (“hatemail”) e che ormai consideriamo tipico della comunicazione on line. A tutte queste mail odianti e odiose, Staino rispose. L’altra sera ci raccontava di come le lesse tutte, classificandole in base ai contenuti in quattro categorie, e studiando una risposta adeguata per ogni categoria.

Il risultato di questo lavoraccio fu un’altra ondata di mail, il cui tono però era improvvisamente cambiato: molti che lo avevano insultato ora gli chiedevano scusa; alcuni persino lo ringraziavano di averli gratificati di qualcosa che ormai non si aspettavano più: una risposta. Meno male che l’altra sera c’era Staino, a spiegare che il web è conversazione; non con parole astratte, ma con una bella storia. Sono molto contento di averlo conosciuto, e di poter collaborare al quotidiano che illustra da tanti anni. Trovo più che giusto che il suo spazio sia il più visitato e commentato di Unita.it: non è semplicemente una prova di fedeltà, ma anche la dimostrazione che gli utenti riconoscono chi ha capito come funziona il web, e chi sa usarlo con civiltà. Ne approfitto per ringraziarlo. http://leonardo.blogspot.com
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Più o meno connesso

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Io comunque stasera sono alla festa Democratica di Urbino, no, non all'incontro con Margherita Hack, ma a quello che viene dopo.


ore 22.15 FESTA IN DIRETTA. Tele2000 canale 16

e diretta web su www.unita.it
Le parole della Città Ideale: Informazione e Connessione - Serata Unita.it
Con: il Maestro Sergio Staino
Cesare Buquicchio, Giornalista e Coordinatore Unita.it
Giovanni Boccia Artieri, Docente Università di Urbino
Stefano Di Traglia, Responsabile Comunicazione PD Nazionale
Leonardo Tondelli, Blogger



Quindi se ho capito tutto sono anche visibile in tv (Tele2000 canale16).
Speriam bene.
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L'ultimo emiliano

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Provare Bersani

Chi è cresciuto in Emilia, parzialmente assuefatto al mito del buongoverno locale, si è proposto almeno una volta nella vita il quesito: se siamo così bravi (e gli altri così scarsi), perché a Roma non ci andiamo mai? Forse allora non è vero che siamo così bravi? Forse siamo bravi come “amministratori” ma non come “politici”? Ma che differenza c'è, ce la spiegate? Perché se “amministrare” significa governare bene, e “politica” lotte per il potere, forse a Roma sarebbe meglio che ci andassero i bravi amministratori... o forse il problema è l'opposto: i nostri amministratori sono talmente bravi a lottare per le loro poltroncine locali da annullarsi a vicenda, perdendo il meglio della loro vita in congiure municipali e spianando la strada per Roma a latifondisti sardi, intellettuali della Magna Grecia, deputati di Gallipoli. Sia come sia, fino ai primi '90 i politici emiliani di caratura nazionale sono stati curiosamente rari. Se in seguito l'Emilia si è rifatta in modo clamoroso, è stato in massima parte con personaggi che alla lotta per le poltroncine non avevano potuto partecipare (e forse proprio per questo motivo erano 'costretti' a proiettarsi sulla scena nazionale): un'orda di cattolici (Casini, Giovanardi, Prodi, Franceschini) e persino un missino. Insomma non sarà quel paradiso del Buon Governo che molti credono, l'Emilia, ma è senza dubbio una delle migliori palestre per i politici; che pare aver giovato più al centrodestra che al centrosx.

Bersani è l'eccezione. Dovesse vincere le primarie (e dovrebbe), Bersani sarà il primo leader di centrosinistra a poter vantare il classico cursus honorum degli amministratori comunisti emiliani (proprio mentre nel frattempo l'Emilia rossa stinge): giovanissimo vicepresidente di comunità montana, consigliere e poi assessore a Piacenza, presidente di Regione, Ministro. Mentre lui saliva paziente tutti i gradini, sulla poltrona di segretario o di leader del suo schieramento si ritrovavano personaggi con minori esperienze e con storie del tutto diverse: penso a Prodi o Franceschini, ma anche a Rutelli. Questo per dire quanto sia radicata, anche se poco esplicitata, la dicotomia amministrazione-politica: a Roma ci vadano persone con belle facce (Rutelli), o belle idee (Veltroni), e se belle non si trovano che siano almeno facce e idee rassicuranti (Prodi); gli amministratori al massimo potranno ambire al ruolo di eminenze grigie; di estensori di decreti magari rivoluzionari sulla carta, che poi l'arietta romana si incaricherà di addolcire. Il vero salto della sua carriera è stato da burocrate locale a personaggio televisivo, ospite ideale di Ballarò più che di Vespa: il signore che a un certo punto della serata si mette a snocciolare i dati sull'economia e intorno si fa silenzio. Un anti-Tremonti, in fondo speculare al modello.

Ma Bersani, come Tremonti, sembrava l'eterno cardinale rassegnato a veder nominare i pontefici. Il gran rifiuto di partecipare alle primarie del 2007 ci impedì di assistere al vero scontro tra la politica romana dei grandi ideali (Veltroni) e l'amministrazione del potere (Bersani, con cricche dalemiane annesse e connesse). Sarebbe stato davvero un bel duello, ma Bersani lo avrebbe comunque perso, e allora a che pro? Con machiavellica rassegnazione i grandi burocrati Ds hanno lasciato che Veltroni bollisse nel suo brodo aromatico, e adesso si rifanno sotto. Con Bersani, grande amministratore con aura di tecnico e (not least) ultima faccia televisiva spendibile. Potrà anche sembrare una restaurazione, il ritorno del dalemismo, e in parte lo è, però... c'è qualcosa di più che non so spiegare in altri modi, insomma... Bersani è emiliano. Sarà anche un'astrazione geografica, ma ha un senso storico: mentre gli altri studiavano, lui amministrava. Quando si parla di grande scuola del PCI, si pensa sempre a quel certo plesso alle Frattocchie: c'è un equivoco. La vera scuola erano le sezioni locali, le circoscrizioni, i consigli e poi le giunte, con tutto il folklore annesso. Bersani non ha bisogno di improvvisarsi oggi cameriere alla festa dell'unità, perché gli spiedi li metteva su trent'anni fa: qualche giorno fa è stato a una festa padana e si è permesso di dire “Guardate che questa roba qui (mulinando l'indice) l'abbiamo inventata noi; e se chiedete al leader vostro alleato a che prezzo bisogna mettere uno spiedo per non rimetterci, lui non lo sa; io sì”. Un tipico sprazzo di orgoglio emiliano, versione passivo-aggressiva dell'arroganza lombarda (e meno male che avevo scritto che le regioni non esistono): “quello là” sarà anche bravo a metter su palazzine e televisioni, ma se gli chiedete quanto deve venire uno spiedo per non rimetterci, non lo sa.

“Mentre gli altri studiavano, lui amministrava”: ma sarà vero? Mentre lo intervistano scopro che Bersani è laureato (Veltroni e D'Alema no, per esempio), in filosofia, con una tesi, udite udite, di storia del Cristianesimo. Sarà anche solo un episodio nella vita di uno che poi ha fatto tutt'altro, ma me lo rende subito più simpatico. In un periodo in cui il cristianesimo è diventato un blocco compatto che si deve accettare o rifiutare in toto (magari sputandoci anche un po' sopra), mi trovo sempre più vicino a quelle poche persone che tra credere e non credere si sono accorti che c'era una terza dignitosissima scelta: studiare. Una settimana fa il candidato cosiddetto laico, Marino ha spiazzato qualcuno autodefinendosi cattolico. Bersani spiazza ulteriormente, rifiutando di rispondere alla domanda. Come? Un candidato che non vuole dirci se crede in Dio o no?

Me lo potevo immaginare ragioniere, Bersani, specializzato in qualche ramo di economia e commercio, o perché no, perito agrario; al limite ingegnere; invece salta fuori che l'unico candidato in grado di calcolare l'entità della manovra necessaria a muoverci dalle secche della crisi (19mila milioni, ma potrei sbagliarmi) si è laureato su Gregorio Magno. Quindi non vuole rispondere alla domanda su Dio: giusto, è come quando mi chiedono se il futurismo mi piace o no, che senso ha? Quando studi una cosa per anni ti rendi conto che è complicata, e che certe domande sono superficiali... (mr. Einstein, ma a lei questa relatività piace?) Invece di rispondere imbastisce un discorso che tramortisce una buona parte del pubblico: sono venuti apposta per applaudirlo (in più che per Franceschini) e alla fine risulteranno più freddi. La nostra concezione dell'umanità, spiega Bersani (a gente come me, che si aspettava dati sulla crisi e qualche battutina sul puttaniere), la nostra stessa idea di dignità umana, quel sentimento che ci fa provare un istintivo sdegno per le foto dei migranti respinti in mare, è il risultato di una civiltà che nasce col cristianesimo, e poi si biforca in varie direzioni, tra cui quella illuministica settecentesca. Ci sono altre culture, “più filosofiche”, come quella buddista, che dell'uomo hanno una concezione diversa. Diciamo che credono meno nell'individuo: e fa l'esempio della Politica del Figlio Unico. Pensavate che fosse un esempio limite di pianificazione comunista? No, spiega Bersani, “io ci sono stato, sapete: quando ne discutevano, una delle obiezioni principali era: ma un figlio solo verrà su viziato. Ora, una cosa del genere da noi sarebbe impensabile”. Laici o cattolici, noi abbiamo un'idea di individuo, che loro non hanno “e a quelli che insistono a dirci che certe cose non sono negoziabili [aborto, eutanasia, fecondazione], dico: continuate, continuate pure a non negoziare. Alla fine vi toccherà di prendervi ricette di gente che ha un'idea molto più diversa dalla vostra”.

Bersani continuerà a parlare per più di un'ora, e sarà bravo davvero: oltre a i contenuti, dimostrerà capacità retoriche non comuni, schiacciando a rete domande incerte palesemente improvvisate dall'intervistatrice. Ma sarà tutta discesa, almeno per me. Dopo aver parlato, con parole semplici, di dignità dell'uomo e di culture più o meno filosofiche, Bersani mi ha dimostrato alcune cose. Prima, di essere qualcosa di molto più del grigio burocrate che tiene la contabilità in seconda serata a Rai3: Bersani è un pensatore. Quello che pensa potrà essere discutibile – in fondo non siamo lontani dallo Scontro di civiltà huntingtoniano – ma visto da qui sembra davvero un pensiero: non un collages di aforismi celebri o un album di figurine; su certi problemi B. ha effettivamente meditato; le sintesi che proporrà saranno qualcosa di più di meri compromessi tra chi crede o no in un tale Dio. Seconda: è uno che questi pensieri non li tiene per sé, ma li offre a una platea che sì, è amica, ma forse si aspettava qualche lisciata al pelo in più. Il suo comizio mi ricorda quella scena del Gladiatore (film orribile) in cui Maximus scende nell'arena e decapita un paio di mirmidoni in pochi secondi: la gente non ha nemmeno il tempo per applaudire. È andata così: non si sono certo spelati le mani. Voteranno comunque per lui, sono modenesi diamine, ma hanno fatto un po' fatica a seguirlo. Che sia troppo bravo? La maledizione dei comunisti emiliani: si preparano, si preparano, per approdare preparatissimi in panchina. Bersani dovrebbe vincere le primarie con relativa facilità. Convincere gli italiani che dopo Berlusconi tocca a lui, e che bisogna tirarsi su le maniche e racimolare 19mila milioni o più, sembra ancora un altro paio di maniche.
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Cronache dalla campagna

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Tempo di feste democratiche. Domenica Franceschini era a Modena; lunedì è arrivato Marino. Io sono andato a vedere entrambi e adesso vi racconto. Per chi non ha tempo: Marino 4 – Franceschini 1. Sabato la finale con Bersani.

Lunedì non sapevo ancora per chi avrei votato. Chiedendo in giro mi sono accorto di condividere con molti l'impressione che tutti e tre i candidati non siano poi male, “molto meglio di quelli di prima” (quelli di prima li avevamo votati perché erano meglio dei precedenti, ecc.).
Franceschini e Bersani sono comunemente ritenuti dei gentiluomini, un po' rovinati dalle pessime frequentazioni: Binetti il primo, D'Alema il secondo. Marino è generalmente simpatico a tutti, ma rischia di essere l'ennesimo scalfarotto (con tanto affetto allo Scalfarotto originale). Per cui si rimanda la decisione, si prende del tempo, addirittura si vanno a vedere i comizi. In una situazione del genere un oratore un po' trascinante potrebbe anche fare la differenza. Nessuno dei due lo è (nemmeno Bersani, che io sappia). Marino non ci prova nemmeno: ha trovato uno slogan da appioppare agli avversari, “siete leader del secolo scorso”, e lo ripete due o tre volte senza vergogna; ha così poca retorica che quel poco la sfoggia come una spilletta. Franceschini invece si capisce che è del mestiere. Ha un tono concitato immediatamente riconoscibile (è già un personaggio mediatico, lui: Marino forse non lo diventerà mai), un timbro lievemente stridulo, che ricorda la falsa intransigenza fassiniana, mitigata però dalla dolcezza del ferrarese. È la voce giusta per dettare un programma, imporre la linea: fermezza senza arroganza. Tra sei mesi potrebbe essere scomparso nel nulla, eppure la stoffa per diventare il nuovo Berlinguer catto-laico c'è.


Il campo di gioco

Entrambi giocano in trasferta: Modena, già feudo dalemiano dovrebbe incoronare Bersani – siamo molto prevedibili. Siamo però anche molto aperti al confronto, e domenica sera riempiamo l'arena concerti: molti restano in piedi, e i posti a sedere sono qualche migliaio. Successone, soprattutto se tieni conto che è l'arena dell'ex festival dell'Unità, e che quello che parla fino all'anno scorso era un post-democristiano. Se invece consideri che Franceschini è ancora il Segretario, e che questa è la sua festa, il paragone col passato è impietoso: dieci anni fa quando veniva D'Alema si bloccava la tangenziale. Caldi applausi, ressa finale per gli autografi. Bersaniani con molto fair play.

A Marino ci si credeva meno: niente Arena, il Palaconad era ritenuto più che sufficiente. Forse è Marino a non credere molto all'Emilia, al punto di ficcare nel primo lunedì di settembre (la data peggiore dell'anno, a pensarci bene), non uno ma due comizi: Piacenza alle 18 e Modena alle 21. Ora si può anche capire che siano collegi sacrificabili; nessuna pretesa di essere l'Ohio elettorale di Ignazio Marino, e tuttavia gli interrogativi sorgono spontanei: ma chi è che viene a vederti un lunedì alle sei a Piacenza? E se a Piacenza arrivi alle sei, e come minimo parli un'oretta, come accidenti puoi credere di essere a Modena alle nove? è evidente che quello che ti organizza la campagna non è lo stesso che ti organizzava le operazioni. Insomma, noi arriviamo con una mezz'ora di anticipo e troviamo il palaconad deserto. Mi viene in mente una trista serata di qualche anno fa, Cofferati in versione sceriffo davanti a una platea di vecchietti canuti. Andiamo a fare un giro in libreria.

Torniamo dopo venti minuti e il palaconad è esaurito. La gente sta già cominciando a sottrarre panchine dagli stand circostanti. Barattiamo un paio di sedie con due firme su una legge d'iniziativa popolare e ci sistemiamo sul fondo: la gente comincia ad appoggiarsi sulle pareti in compensato. Dopo mezz'ora il giornalista spiega che Marino sta arrivando da Piacenza: il pubblico mormora, qualcuno si indigna (Pc e Mo nello stesso giorno? Ma che roba è?), senza però schiodare dalle panchine. Il giornalista rassicura: l'intervista sarà trasmessa anche nella sala di fianco. Alla fine Marino riempirà tutte e due. Il primo lunedì di settembre, alle dieci di sera, il dott. Ignazio “Chi?” Marino sbarca alla Festa del Lavoro di Modena e fa il pienone. Tanti applausi, anche se c'è gente che rimane a braccia conserte tutto il tempo. Un signore di fianco a me applaude raramente, e spesso scuote la testa sconsolato: atteggiamento tipico del bersaniano disilluso (“ma queste cose ce le deve venire a dire un chirurgo?”) Se posso interpretare: molti modenesi voteranno Bersani sperando che realizzi il programma di Marino. Sì, lo so, è strano, siamo persone strane.


L'interlocutore

Entrambi si affidano alla forma intervista, una chiacchierata con un giornalista che non ha nessun interesse a metterli in difficoltà. Particolarmente sdraiato il direttore tg3 che intrattiene Fassino: a distanza di una mezz'oretta risulta difficile ricordarsi cosa abbia chiesto; l'unica domanda vagamente difficile riguardava il rapporto tra cattolici e laici, senza fare nomi. F. rassicura: nel partito ci sarà spazio per entrambi. Meno male. (Ah, e un paio di frecciate alla situazione del tg3, ma in prima persona, alla Santoro: chissà se ci sarò ancora, speriamo che non mi montino un caso-Boffo, sono andato in soffitta a guardare se ho qualcosa da vergognarmi nel passato, dichiarazioni dei redditi, vecchie fiamme, ecc. ecc. Probabilmente a Roma questo tipo di aneddotica funziona: gli ascoltatori pensano “Però, questo un pezzo grosso che rischia di perdere il posto e ha la forza di scherzarci anche su, fico”. Su da noi è un po' diverso: l'ironia è troppo sottile, non si percepisce. Si sente invece una forte tendenza a personalizzare i problemi, a gridare allo scandalo solo quando ti toccano il posto fisso ecc. ecc. ecc.).

Una scelta migliore è l'intervistatore di Marino, Formigli. Finge addirittura di volerlo mettere in difficoltà, ricordandogli l'unico incidente della sua campagna (l'infelice uscita sulla “moralità” del partito all'indomani dell'arresto del segretario di sezione stupratore). Le domande sono un po' più pepate, come le vuole il pubblico, con nomi e cognomi: insomma, Binetti sì o Binetti no? La gente applaude la domanda ancora prima della risposta.


I contenuti

Ecco, è un po' imbarazzante. Forse avrei dovuto prendere appunti. Ma insomma, io sono stato giù nell'arena in piedi, a sentire Franceschini per 40 minuti, applaudendolo persino... e non mi ricordo niente. Non dico che mi abbia annoiato. Non mi ha nemmeno acceso nessuna spia. Nessun passo falso, ma come dire... niente in tutto. No, esagero, ma davvero: niente che non si potesse riassumere in venti minuti da Vespa o a Ballarò. Aspetta, mi è venuta in mente la cosa delle due rose. Sì, è andato a portare una rosa bianca sulla tomba di Zaccagnini e una rossa su quella del partigiano comandante Bulow. Le due rose, uhm. Insomma, abbiamo un grande passato, anzi due grandi passati, in cui a volte ce le siamo date ma abbiamo anche fatto cose fantastiche assieme, come resistere ai nazisti. E il futuro? Beh, la prima uscita un po' infiammata (forse l'unica) è sulla fuga dei cervelli: stiamo mortificando i nostri giovani, dice. Io applaudo, ma il giorno dopo Marino tornerà sul problema citando esempi concreti.

Se di Marino ricordo molte più cose è perché Marino, senza essere un grande oratore, è un vivace affabulatore. Si sta viaggiando l'Italia e si capisce che ha voglia di raccontartela: la gente si aspetta tirate laiciste e invece lui comincia parlando di operai che fanno lo sciopero della fame (è andato a trovarli) del comune di Riace che è diventato una comunità multietnica, eccetera eccetera, e passa una mezz'ora abbondante senza tirare fuori la parola “laico”. È il giornalista che lo deve aizzare: la gente qui è venuta a sentirti fare il laico, su, facci un po' il laico esasperato. Ma anche parlando di contraccezione ha più voglia di raccontare episodi che di spiegare le sue idee: durante una tavola rotonda ha sentito un parlamentare (di destra) ammettere che i ferri sono meglio della pillola perché “fanno paura”. “Ma siamo impazziti?” Ovazione. E la Binetti? “Se mi dimostrano che il 70% del partito è con la Binetti, io ne prenderò atto. Ma se invece il 70% del partito la pensa come me, anche la Binetti dovrebbe prenderne atto...” ovazione, e il giornalista incalza: la vorresti fuori dal partito? Sornione, Marino indica il pubblico. Il pubblico fischia e urla improperi alla parlamentare inciliciata. Alcuni devono essere per forza gli stessi che ieri hanno applaudito il suo candidato.


Bilancio

Franceschini non è male, no: come si dice in questi casi: “è una risorsa” (di solito dopo averlo detto si preme il pulsante della botola). Ma insomma, ha un modo di tenere insieme tutto e niente che mi è troppo familiare.
Lampadina: Franceschini è un Veltroni Senza. Senza Kennedy, senza metri quadri a Manhattan, senza cinema, senza romanzi, senza Africa, senza figurine, senza tutte quelle cose che dovevano alleggerire la figura del leader e invece l'hanno impiombata. Franceschini è molto più leggero, ai limiti della non consistenza: si vede quello che c'è dietro e dietro ci sono molte buone intenzioni e alcune brutte facce.

Marino non vincerà mai. In tv non lo conosce nessuno, molti andranno alle primarie senza nemmeno sapere chi sia. Allo stesso tempo uno che ti realizza una serata così, il primo lunedì di settembre a Modena, ha già vinto. Ha fatto uscire la gente e gli ha raccontato cose che già sanno: crisi economica, emergenza immigrazione, conflitto d'interessi, cosa manca? Ah sì, la questione laicità. È come se avesse preso in mano l'agenda: Franceschini, o Bersani, dopo aver vinto, avranno di fronte i problemi che sta ponendo lui. (Si chiama egemonia).
Verso la fine mando un sms al mio amico ex assessore che non è venuto perché ultimamente tutta la baracca non la regge più. “Qui c'è Marino che si sta mangiando Franceschini”. La risposta arriva in pochi secondi: “Io voto per lui. Appena posso mi faccio anche operare".
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- prima pagare

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Find the cost of freedom (buried in the ground).

Ma lo sapevano, i simpatici arancioni ucraini dell'anno scorso, che la Libertà tanto sospirata implicava pagare la bolletta del gas almeno due volte tanto? Probabilmente no. Adesso che l'hanno scoperto (proprio sotto il solstizio d'inverno), forse sono meno arancioni – e anche meno simpatici. L'Europa che l'anno scorso li appoggiava con tanta determinazione, si è sgonfiata al primo calo di pressione, e Putin ha vinto il negoziato. E noi cittadini del libero occidente? Continueremo a incoraggiare i nostri liberi, freddolosi amici ucraini con tante belle parole, consigli preziosi. Questi del Riformista, ad esempio.

La libertà ha un prezzo, no free lunch. Dovranno pagare l'energia a prezzi di mercato, diversificare i fornitori, riconvertire la loro industria. Non è una operazione che si fa in poco tempo, tanto meno va fatta sotto il bastone di Putin. Però non si scappa. Gli arancioni di Kiev, verso i quali continua ad andare la nostra simpatia e il nostro sostegno, debbono dirlo chiaramente agli ucraini e non gridare soltanto al grande complotto.


Notate: non è che gli ucraini devono preoccuparsi del "bastone di Putin". Però, siccome il bastone c'è, e funziona, "non si scappa". Ed è inutile gridare al complotto, perché questa è semplicemente la libertà secondo il Riformista: un libero mercato in cui i prezzi per ora li stabilisce Putin (che ha il libero bastone più lungo), e poi si vedrà.

Poi uno ha voglia a dire: sono tramontate le ideologie. E discutere così, per assoluti, di "Libertà", "Democrazia", "Cultura", "Cristianesimo", "Islam", che cos'è, se non purissima ideologia? Trentenne come sono, devo dire che questi discorsi mi circondano da sopra e da sotto; e non so dire se mi nausea di più la malafede dei vecchi o la dabbenaggine dei giovani. Ma i vecchi ormai la testa l'hanno fatta e finita: non mi resta che guardare in giù e avvisare: guardate che si sta parlando di nulla, qui. La Libertà con la "L" non esiste, non esiste la Democrazia, la Cultura è più delle volte un complesso mix d'ignoranze, eccetera. Tutta ideologia, per l'appunto: specchi per le allodole, sovrastrutture. L'unica cosa di cui abbia senso parlare è l'economia, per cui (vi prego) ogni volta che qualcuno vi propone esportazioni di democrazie, rivoluzioni pacifiche e liberali, o anche solo riforme e privatizzazioni e liberalizzazioni… voi, prima di dire di sì o di no, ponetevi l'unico quesito che valga la pena: chi paga? Per favore, non fate come gli ucraini, che ci hanno messo il cuore e si sono visti arrivare il conto un anno dopo.

E questo è un principio generale, che vale anche per il caso Fassino: prima di qualunque moralismo, di qualunque autocritica o passo indietro, fatevi una domanda semplice: ma chi lo paga, poi, Fassino? Chi dovrebbe finanziarlo? Non crediate che la risposta stia scritta nera su bianca da qualche parte: non è vero. A 15 anni da Mani Pulite noi cittadini non ci siamo ancora chiariti su come si debbano finanziare i partiti. Ma i partiti, nel frattempo, esistono: e costano. Il centrodestra una soluzione provvisoria l'ha trovata: si è messa a libro paga del riccone. Bene, bravi, anzi no, corrotti, buuh! Ma la sinistra, intanto? Dovrebbe campare d'aria e di gettoni di presenza? Un partito come i DS non è solo una consorteria di parlamentari e amministratori: sotto c'è una struttura, i quadri, il servizio d'ordine, le redazioni di giornali e rivistine che nessuno acquista ma che vanno scritte bene, per le rassegne stampa, e i redattori devono sapere anche l'inglese per scrivere no free lunch senza errori… e poi c'è da studiare una fuoriuscita per i mediocri, quelli che non ce l'hanno fatta e si sono persi lungo il cursus honorum (la settimana scorsa, su Diario (23/12/05, pag. 6), Deaglio ricordava i trascorsi di Sandro Bondi: Era il sindaco del Pci di Fivizzano, cittadina della Lunigiana. Una congiuretta di paese lo fece fuori e lui si rivolse al partito: avete lavoro per me? Sì, gli dissero, va’ a raccogliere polizze per l’Unipol a Pontremoli. Lui rispose: “È un umiliazione!” (Erano gli anni in cui Consorte rendeva forti le coop). E bussò a casa Berlusconi, che lo assunse).

…E last but not least ci sono le spese di campagna elettorale, col non trascurabile dettaglio che l'Italia è in campagna elettorale permanente da dieci anni; e che l'avversario, le regole, non le ha mai rispettate e mai le rispetterà, per definizione. Lui ha il quasi-monopolio del mercato pubblicitario, può tappezzare le città di manifesti stampati e incollati a prezzo di favore, e Fassino intanto che fa? Prendi anche solo un consulente all'immagine del calibro di Klaus Davi, l'uomo che ha portato Fassino da Maria De Filippi: chi lo paga, il conto di Klaus? I mangiatori di porchetta al Festival dell'Unità? Ma anche i Festival hanno un loro prezzo (sia detto per inciso che la generazione dei volontari di ferro, patrimonio inestimabile di friggitori di porchetta, non durerà in eterno, e forse neanche altri dieci anni). Per fortuna che c'è Unipol che sponsorizza. E quanto costa, all'Unipol, sponsorizzare il Festival dell'Unità? E chi decide dove termina la sponsorizzazione e dove comincia il collateralismo? Non lo decide nessuno. O se preferite, lo decidiamo adesso qui. Ma sì: proponiamo una legge che proibisca qualunque sponsorizzazione a qualunque evento di natura politica. La moglie di Cesare dev'essere al di sopra di ogni sospetto, e anche le cugine e le cognate fino alla settima generazione – non ha nessuna importanza se qui di fronte la moglie di Gneo Pompeo ha aperto un lupanare.

Quello che indispettiva tanto in Craxi, quindici anni fa, era quel tutti rubavano, tutti sapevano. Quello che oggi indispettisce in Fassino è quel gesuitismo di ritorno, quel mettere le mani avanti, abbiamo una banca, anzi no, scusa, non vorrei che gli intercettatori equivocassero, la banca è solo tua, mi informo solo per cultura generale. C'era della grandezza in quel mariuolo di Ghino di Tacco, c'era della spavalderia, c'erano gli anni Ottanta. Fassino invece è uno che non si può nemmeno dire che rubi, tecnicamente, ma comunque già se ne vergogna. Craxi – certo – era molto più facile da odiare. Fassino fa semplicemente cascare le braccia. Ma scusa, ti fai chiamare sul cellulare? Ti fai dettare le percentuali? E scriversi una mail, ordinata, criptata, no?

Sia Craxi che Fassino, in ogni caso, non hanno fatto che cercare a modo loro una risposta alla sola domanda che valga la pena: chi paga? Dice Prodi che bisogna tracciare nuovi confini. Perfetto, sono d'accordo. E a quella "massiccia maggioranza, di Italiani per bene (per bene, non perbenisti), di cittadini onesti (moralmente onesti e non moralisti)", propongo allora di tracciare il seguente confine: mettete nero su bianco quanto siete disposti a sborsare, per avere una politica non commista alla finanza. Unipol-BNL non deve finanziare la campagna elettorale? Perfetto: fate un prezzo voi. Quanto sarebbe disposto a dare, ciascuno di noi, per togliersi Berlusconi dai piedi e avere un partito solido, strutturato e "pulito"? Bando alle ciance e alle autocritiche: fuori i soldi. Prima pagare, poi democrazia. In Ucraina hanno fatto il contrario: a momenti finivano sottozero.
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L’anno prossimo a Ponte Alto

Terza e ultima

Settembre, a Modena, è l’unico mese che valga la pena. Poi ci saranno le nebbie, le piogge, qualche nevicata, e poi improvvisamente il sole, il sudore, i finestrini aperti su polline e micropolveri, le zanzare e l’afa, e tutti al mare. Non ci fosse questo terrazzino sull’autunno, dove vengono le ragazze vestite di bianco per meglio farsi valutare l’abbronzatura, e il lavoro di rassodamento ai fianchi, non ci fosse un po’ di Festival per farsi il riassunto su chi si è diventati, dove si abita, e con chi, e perché, e quanto al mese e per quanti mesi. Non ci fosse tutto questo si potrebbe anche piantar baracca e burattini e andare dovunque, ché la val Padana non sembra esser stata progettata per noi: per le zanzare, forse (o per le nutrie).
Io poi col secolo nuovo avevo un sacco di cose da dire a un sacco di gente: che adesso abitavo in centro a Modena, e lavoravo, lavoravo anche parecchio, con un contratto a tempo indeterminato, ch’è si raro. Così che improvvisamente il volontariato non mi interessava più. Oddio, il mio capo – che aveva uno stand al Festival – ci avrebbe anche tenuto.
“E poi potresti andare a fare qualche serata al Festival, no?”
“Al festival? Fino a mezzanotte?”
“Ma no, alle undici chiudi”.
“Ma poi il giorno dopo vengo a mezzogiorno?”
“Ehm, no, se fai così tu dopo anche tutti gli altri…”
“Ma allora è straordinario, me lo pagate?”
“No, sarebbe volontariato”.
Eeeh?”
“Volontariato!”
“Beh, qualche volta vi verrò a trovare”.

Il lavoro è lavoro e il volontariato non è lavoro, e a chi mi diceva rifacciamo una rivista un gruppo di studio, o semplicemente tiriam mattina con i massimi sistemi e con la birra io rispondevo non ho tempo vado a lavorar. Mi fermai a sentire Luttazzi, risi tutto il tempo e il giorno dopo non mi ricordavo una battuta sola (pare che a molti faccia questo effetto), vidi i Subsonica, gli Almamegretta, la gente che entrava a vedere i Blu Vertigo, con Morgan che tentava lo stage diving e picchiava per terra ingloriosamente (e la Sammi si incazzò col suo ragazzo perché Asia lo aveva inspiegabilmente salutato). Fu un anno di transizione, come tutti. Del resto a esser precisi il secolo iniziava l’anno successivo.

L’anno successivo, appunto.

L’anno successivo mi ritrovavo a sinistra del Partito, parecchio a sinistra del Partito, per uno che era partito da una parrocchia e non gli sembrava di essersi mosso granché. Allora forse si era spostato il Partito, no?
Tornare da Genova, con le sirene nei timpani, e trovare tra un paio di Megan Gale quel cartello pubblicitario fu come il colpo di grazia. Noi ci si faceva massacrare per strada e il partito restava in casa a fare marketing. Ero molto incazzato, e quando sono incazzato scrivo (riuscite a immaginarvi quanto io sia incazzato?)
Scrissi un pezzo che, a detta di chi se ne intende, è ancora uno dei migliori. La lesse pure mio fratello e rise molto. Un giorno eravamo in macchina assieme – stavamo andando al matrimonio di Virus (che non si ricorda più di essersi mai chiamato Virus) – e passammo sotto quel cartello. “Non dire niente”, mi disse. “So già la storia”. Scrivendo molto non mi restavano poi parecchie cose da dire.
Io sapevo che prima o poi mio fratello l’avrei visto, allo Spazio Giovani, stavo abituandomi all’idea. C’era abbastanza Spazio Giovani per tutti e due? Dovevo farmi da parte?

Per il momento andavo ai concerti (gli Stereolab! Ma l’acustica era pessima) e stavo dietro il banchetto di Attac. C’eravamo presi la nostra posizione e non la mollavamo. In un mese avevamo già stampato cinque quaderni di lavoro, vendevamo magliette, tessevamo una trama di studenti, insegnanti, operai più o meno specializzati. Chiesi al mio capo uno spazio dello stand per proiettare un paio di filmati di Genova, uno coi manifestanti pacifici e l’altro coi manifestanti tumefatti. Non facevamo che guardare spezzoni di Genova, e in sottofondo, onnipresente, Manu Chao, neanche più musica, fruscio. Dovevamo convertire il Partito che il 21 luglio ci aveva lasciati soli. Eravamo in tanti, l’assemblea era prevista per la sera dell’11.

Quando su un tavolo di biliardo una boccia colpisce un’altra, trasferisce su di lei gran parte della sua energia cinetica. La boccia che era immobile schizza via. La boccia che correva si ferma di colpo. Ma se potessimo rallentare come in un filmato, scopriremmo che c’è un istante in cui le due bocce sono ferme, immobili, e l’energia cinetica è trattenuta da qualche parte. La collisione c’è già stata, ma le reazione non ancora. L’11 settembre ci sentivamo così. Venivamo da Genova, andavamo forte, siamo andati a sbattere contro questa cosa enorme. E sapevamo già che non ci saremmo più mossi, e che anche questa cosa enorme in breve sarebbe schizzata via, per la sua rovinosa strada: ma intanto eravamo lì, a bocce ferme, disperati e impazienti. Allo Spazio Giovani avevano montato il maxischermo, così arrivando alla spicciolata sentimmo per la prima volta la voce di Bruno Vespa nel sacrario. E in un momento in cui non ci si capiva nulla, ma davvero nulla, e le stime sui morti variavano dai cinquecento ai cinquantamila, il Ministro Claudio Scajola seppe fornirne la cifra precisa, “da fonte certa, americana”. Quell’uomo era un fenomeno, anzi è.

Tornai a casa, misi su rai 3 e passai la notte sul divano. Nulla sarebbe stato come prima, come si dice in questi casi.

L’anno dopo c’era la guerra e io ero esausto. Cambiare lavoro, raccogliere tremila firme, protestare contro l’Afganistan e l’articolo 18, incontrare la donna della propria vita, sono cose che stancano. In libreria ci sono i soliti fumetti, è inutile che ristampino Moebius, lo so a memoria. C’è una mostra di Wharol, ma quanto tempo ci puoi mettere a guardare una mostra di Wharol? Dieci minuti per leggere la presentazione e tre minuti per un’occhiata ai vasetti Campbell. Al banchetto del Forum Sociale ci andavo per inerzia. Proiettavo l’ennesima videocassetta su Genova (e la gente continuava a fermarsi, sconvolta). Volevo prepararmi sul WTO, lessi tutto il libro di Susan George che in seguito, purtroppo, dimenticai.
Di fronte c’era l’Associazione Italia-Cuba, con le eterne magliette del Che. Il giorno della manifestazione per la pace, spuntò il cartello: magliette della pace.
Lì sotto, sulla riva del lago, c’era lo spazio Giovani, ma io non volevo più andarci, e avevo ragione. C’è gente davvero giovane lì sotto. Una sera stavamo facendo capannello quando non passa un fighetto totalmente stonato con un gavettone di birra? Ed eccoci qui, un architetto, un professore di italiano, un dottorando in filosofia e un avvocato, fradici di birra. Eravamo molto incazzati, in ispecie Johnny, che certe cose ai suoi amici non le può tollerare (lo tenemmo fermo in sei).
“Ti portiamo a casa, eh?”
Verso il parcheggio, sull’argine del laghetto artificiale, quasi inciampiamo in un culetto roseo, sbocciato da un paio di jeans sbottonati.
“Ehi, ma qui c’è un culo!”
“Se guardi bene, non è da solo”.
“Ma che ci fanno lì? Si sono addormentati?”
“Oppure se la prendono comoda”.
“Che roba però, ‘sti giovani”.
“Sfacciati, proprio, eh?”
“Ma figurati se noi alla loro età”.


Sulla strada di casa sorpassiamo il fighetto a piedi con la macchina, il suo fuoristrada ha spianato il guard-rail.

Quest’anno qualcosa è cambiato.
Hanno fermato Tom fuori dal parcheggio custodito: si era fatto un paio di birre. Palloncino, patente ritirata (da dieci giorni a sei mesi, vedremo), dieci punti in meno, mille euro di multa.
Ho la sensazione che nulla sarà come prima.

Per il resto, mi tengo la smorfia dell’anno scorso, ma non sono più esausto, sono solo scocciato. Non faccio banchetti, volontariato non mi ricordo più cosa sia, le ragazze carine sono tutte sistemate, ballare non se ne parla, birra è meglio berne poca. Giusto per vedere Cofferati, che l’anno prima non sarebbe mai entrato in politica, e quest’anno non desiderava altro che prender la cittadinanza a Bologna. La verità è che ho poca voglia di uscire, non sono più abituato a tanta gente nello stesso posto. E poi una volta ero solo, autonomo, parcheggiavo, bevevo qualcosa, un’occhiata in libreria e fine. Ora devo salutare cento persone e tutte mi chiederanno come va col lavoro, e qui dovrò iniziare cento discorsi un po’ complessi.
“Non sarà che comincia a starti stretta, Modena?”
“No, lo escludo. È che… Lo escludo”.
“Cosa prendi?”
“Una bud”.
“Ih, ih, ih”.
“Che c’è?”
“Si pronuncia bad, ignorante”.
“Lo so. Però io dico bud. Problemi?”
“Eeeeh, che carattere”.
“Sei tu che rompi le palle, scusa”.
“Com’è andata al mare?”
“Di merda. E te?”
“E il lavoro, come va?”
“A puttane grazie”.
“Ma quella rivista che facevi…”
“Chiuse tutte le riviste”.
“E quella brunetta che stava in casa con te, sai che a me piaceva…”
“Tornatataranto”.
“Ah… cambiando argomento”.
“Ecco”.
“Quest’anno è uno schifo, non c’è neanche un concerto”
“Ma non direi, stasera è pieno”
“Sì, Irene Grandi lo chiami un concerto. È roba da ragazzini”.
“Infatti”.
“Ma tu cosa ascolti, adesso?”
“Non lo so”.
“Io ho preso il live di Manu Chao, carichissimo! Te lo presto?”
“Magari un’altra volta”.

Ora mi rendo conto che ho raccontato quindici anni di Festival dell’Unità di Modena senza quasi parlare del Partito. Che ha cambiato due nomi, due quotidiani e quattro segretari, due volte nella polvere e una volta al governo. Che a Roma ha perso soldi a palate, mentre qui la gente si dava da fare a friggere piadine e a bollire tortelloni, polverizzando record d’incasso, e poi buttando tutto via per quel lotto di terra a Ponte Alto che alla fine non valeva neanche la pena.
Allora spiegherò una cosa: per me, e forse non solo per me, il Partito è come la parrocchia. È un’istituzione che non va presa troppo sul serio, però allo stesso tempo non la si può prendere in giro, ci vuole rispetto. Non per i preti, che vanno e vengono e di solito non hanno niente di nuovo da dire, ma perché c’è gente che ci ha lavorato, e gratis, e non per un volontariato di un anno o due, ma per una vita.
Voi cosa sapete delle parrocchie? Quello che dice il Papa, o Ruini? Non ne sapete niente. Cosa sapete del Partito? Quel che dice Fassino? Fassino non è nessuno senza la gente che lo sta ad ascoltare. Ed è quella gente che monta gli stand e serve ai ristoranti, e si siede per due ore ad ascoltare il nuovo segretario, e ogni anno ce n’è qualcuno in meno. Quando non ce ne saranno più pianteremo baracca e burattini e ce ne andremo via, perché la val Padana non è degna di essere popolata. Io a quindici anni ero una tabula rasa, se qualcuno mi avesse detto: tiriamo sassi da un cavalcavia, ci sarei andato. Se mi avessero dato una mazza in mano, sarei entrato in uno stadio con quella mazza in mano. Ma c’era una parrocchia, c’erano festival all’aperto, città finte di compensato in cui la gente passeggiava tranquilla e nessuno mi chiedeva chi ero e da dove venivo. Voi l’avete un posto così, nelle vostre smaglianti città? A Modena un posto così c’è, e lo hanno fatto i comunisti, che adesso si chiamano diessini. Per questo andrebbero giudicati, non per le loro idee sballate o per le loro strategie ancora più sballate. Per il loro lavoro, per la loro serenità, per la loro accoglienza. C’erano librerie e i concerti, e banchi del bar, e qualcuno mi chiese di fare il Delegato Letteratura, e tutto è iniziato da lì. E tutto questo mi è stato dato gratis, e il meno che io possa fare è dire: grazie. Mi dispiace per chi non c’è più, ma io ci sono, e ci sono anche grazie a voi.
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L’anno prossimo a Ponte Alto
(2 – gli anni dell’Ulivo)

Prolisso, inconcludente, insomma saltate

Nel 1995 Gloria cominciò a dipingere i pannelli del ristorante tipico modenese, con quei trompe-l’oeil che erano la sua specialità. Ci chiese di aiutarla, più per la compagnia che per le nostre capacità.
A quel tempo noi due prendevamo molti treni assieme, perché la sua Accademia e la mia Facoltà erano nelle stessa città, anzi nello stesso spiazzo, e quindi l’accompagnavo fino all’ingresso, parlando dei vecchi tempi. Lei si era appena messa con Giorgio, e secondo me non poteva durare, ma non glielo dissi mai. Feci bene.
In quel periodo, del resto, ero pieno di amiche e confidenti, per le quali facevo cose ora difficilmente spiegabili, come quella volta che mi spinsi fino al Festival di Reggio a trovare la Simona che lavorava come cassiera (quella sera Capossela cantava Non è l’amore che va via), e magari dissi pure una frase del tipo “Passavo di qui per caso, vuoi uno strappo a tornare?” Anche lei era in una fase tormentata e una sera ci sbronzammo a brachetto.
Che fossero compagne di università, o ex compagne di liceo, oggettivamente io mi fermavo a salutare un sacco di ragazze carine, e, benché non battessi chiodo, intorno a me si stava creando un’aura leggendaria. Me la fece notare Giai una sera, mentre curiosavamo in uno stand. Giai aveva sentito parlare di una Banca Etica e voleva metterci dei soldi. Un signore con una grande barba bianca ci spiegò che la Banca non esisteva ancora, bisognava raccattare tot miliardi con una sottoscrizione. Giai sottoscrisse. Io non avevo un soldo.
Io studiavo, macinavo esami, e intanto scrivevo nel giornalino del Circolo, quello di Glauco e Ric. Ma quei due li vedevo sempre meno, si stavano preparando al progetto Erasmus. Come tutte le mie amiche carine, del resto: tutti non facevano che parlare di quando sarebbero partiti per l’erasmus, lasciandomi solo.

Invece l’anno dopo ero meno solo che mai. Era successo di tutto nel frattempo. L’Ulivo aveva vinto le elezioni, d’accordo. E il partito stava cambiando nome, ma questo non interessava veramente nessuno. La vera novità era la mia ragazza. Essa mi voleva bene. Essa veniva a trovarmi in gelateria. Essa amava me e le cose che scrivevo nel mio giornalino. Anche quando stroncavo questi scrittori giovani e minimalisti. Che pena, ‘sto minimalismo! Ma leggetevi Lauzier! (Lauzier l’avevo scoperto sugli scaffali del Festival, mi ero letto tutto il Ritratto di Artista senza pagare).
Devo dire, per puro amore di cronaca, che la mia ragazza non era la sola, che c’era un gruppetto di giovani che quel giornalino a mille lire lo comprava, e lo leggeva abbastanza volentieri. Non erano tante: alcune decine di persone che si conoscevano, quasi tutte per interposta persona e quasi nessuno per nome, e finivano per salutarsi a furia di vedersi sempre negli stessi posti, in particolare al Festival, nello Spazio Giovani. Tra questi c’era una banda di filosofi un po’ più giovani di me, come Johnny, che cantava hardcore melodico in un complesso, e Ivo, a cui una sera chiesi la differenza tra Jungle e Trip Hop (c’era molta differenza).
Il 1996 fu l’ultimo anno di Modena Nord, il Festival si trasferiva a Ponte Alto, quasi un’altra città. Io credevo che nulla sarebbe stato come prima.

Nel 1997 ero disperato. La mia ragazza mi aveva lasciato per un giovane scrittore minimalista. Non riuscivo a stare fermo, ero tarantolato. Andavo a Ponte Alto tutte le sere. Del resto da fare ce n’era.
Facevo volontariato nella piadineria della Pubblica Assistenza. Facevo volontariato nello stand del Commercio Equo e Solidale (dove avevo ritrovato il tale dalla barba bianca, Mario Cavani). Perfino nel bar del Florida, perché? Niente, qualcuno me l’aveva chiesto. Meglio stappar birre tra la salsa e il merengue che restare nel chiuso della mia stanza, con la tesi a mezzo, un virus nel pc e mille vermi nei pensieri.
“O, middai una bud?”
“Pronta la bud… la bad”.
Una sera, non so se sotto l’influsso del ritmo cubano o friggendo una salsiccia, ebbi nel mio piccolo l’equivalente della mela di Newton: i significanti visivi nelle tavole parolibere potevano essere distinti in fonogrammi, spaziogrammi e tassogrammi.
“Forse ci sono anche gli psicogrammi”, spiegai a Glauco che era lì vicino, “non so, ci devo pensare”.
“Gli psicodrammi?”
“No, niente a che vedere. PsicoGrammi, con la G”.
“Ma dove li hai trovati?”
“Da nessuna parte. Li sto inventando io”.
Funzionarono. Infine, a darmi pace, tornò dalla Calabria Giovanna che, con la scusa che non si trovava più a suo agio col fidanzato, l’undici settembre mi portò sopra l’argine del laghetto artificiale e ruzzolammo fino alle quattro del mattino, quando i custodi videro arrivare un ventiquattrenne con gli occhiali deformati e una scarpa sola.
“Scusate, non avreste una torcia elettrica? Perché ho perso una scarpa”.
Anche col loro aiuto la scarpa non si trovava, così tirai fino all’alba, pensando che Modena Nord, certo, era stata importante, ma anche Ponte Alto sarebbe andata benissimo.

Nel 1998 non avevo più voglia di fare volontariato, per una ragione banale: ero obiettore. Quello che fino a quel momento avevo fatto per amore, ora dovevo farlo per forza, e manco mi pagavano. Per giunta il Commercio Equo e Solidale batteva la fiacca. Tutti gli stand commerciali battevano la fiacca, intorno a noi c’era un gran brontolìo di esercenti. Io sedevo alla cassa e mi leggevo i libri in vendita, in particolare uno tedesco in cui si parlava di “società dei quattro quinti”: un quinto produce, gli altri quattro si passano il tempo come possono, vanno ai concerti, fanno volontariato, fondano riviste, complessi musicali, e intanto consumano. In un altro capitolo spiegava che il novanta e rotti per cento del commercio mondiale è pura speculazione, che per frenare questa speculazione basterebbero piccoli accorgimenti, come una minuscola imposta sulle transazioni di grande entità: un’idea che era già venuta a rispettabili economisti, come il professor Tobin.
In quel momento la radio stava diffondendo un pezzo ipnotico, un po’ curioso, con un chitarrista che sembrava assunto per suonare una sola nota in sordina, un doing! ogni quattro battute, e nient’altro. Era un pezzo del nuovo album di Manu Chao, spiegò il diggei, precisando subito: l’ex voce dei Mano Negra. Toh, pensai, chi non muore si risente.

Mama was king of the mambo
Papa was king of the jungle…


Alla piadineria della Pubblica Assistenza avevamo organizzato un incontro per presentare la nostra rivista, che si chiamava “Energie Nuove” in omaggio a Gobetti, aveva la copertina patinata in quadricromia ed era finanziata dalla Pubblica Assistenza, appunto. Purtroppo la stessa sera c’era la Melandri da una parte e Rigoberta Menchù da un’altra.
Giù allo Spazio Giovani scambiai due parole con un ragazzo francese, che lavorava al Comune. Mi spiegò che si trattava di un progetto chiamato Servizio Volontario Europeo. La parola “Volontario” ormai stava diventando onnicomprensiva, come qualche anno prima la parola “progetto”. Figuratevi un “progetto di volontariato europeo”: praticamente doveva includere tutto, il contrario di tutto e il contrario del contrario di tutto, e ci si poteva girare l’Europa…

Nei mesi successivi girai effettivamente un po’ di Europa, ma dovunque andassi, Manu Chao mi precedeva. Divenne un incubo. Tra l’altro io sono convinto che Clandestino sia un bel disco, ma, come dire, un po’ ripetitivo. E nel 1999 lo ascoltavano tutti: in Italia, in Francia, in Scozia, ovunque tornava di moda. La gente che non mi vedeva da mesi non vedeva l’ora di farmi sentire l’ultimissima novità:

King of the bongo
King of the bongo bong
Here me when I come


L’altra moda del 1999 erano i matrimoni. Si sposò Gloria, con Giorgio, e io tornai in Italia per fare il testimone; si sposò Simona, e come facevo a non tornare di nuovo. Al Festival ci andai un paio di sere, giusto per vedere gli Asiandubfoundation, e constatare che anche senza di me tutto sarebbe rimasto come prima.

Quando tornai nella mia cittadina in Francia, ci fu una specie di fiera, e io invitai fuori una mia collega danese.
C’erano due o tre stand, una lotteria, un tirassegno, l’autoscontro. C’era un concerto gratuito nel parco, e ai bordi del parco un sacco di gente poco rassicurante. Gli stessi ragazzi con cui avevamo a che fare di giorno, la sera ci mettevano soggezione.
Eppure lei era entusiasta. Diceva di non aver mai visto una festa di paese così, con tanta gente fuori, le famiglie, i bambini, e tutto all’aperto. Io facevo sì con la testa, anche se non ci trovavo niente di così straordinario. Poi capii qual era il problema.
Il problema è che sì, quella festa non era male, ma nella mia città, giù in Italia, sarebbe durata venti giorni, e tutti sarebbero potuti entrare, senza aver paura di nessuno. Infatti, in tanti anni non mi era mai capitato di vedere una rissa. Mai una. Ci feci caso, per la prima volta, a mille chilometri di distanza.

(Coraggio, continua)
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L’anno prossimo a Ponte Alto

Non pretendo che tutto questo interessi a nessuno, ma

Ho sentito dire che una volta lo facessero al Parco Ferrari, il Festival: io non me ne ricordo.
Modena Nord, invece, sembra ieri. E invece sono secoli. Quando vennero gli Iron Maiden? Io non ero nell’età di comprendere e di volere. Gironzolavamo intorno alle transenne e dovevamo essere ben buffi, quando un tizio ci chiese se volevamo del fumo. Ci arrampicammo su un’impalcatura e salimmo sulla tettoia di un capannone, il palco da lassù era una lucina lontana. Ma avevamo dimostrato del coraggio. Nostro zio ci aspettava a casa di Gloria per la mezzanotte.
L’anno dopo Virus aveva preso una brutta piega, nel casotto del nonno stava mettendo a punto delle bottiglie Molotov. Virus non era arrivato al terrorismo attraverso un percorso politico, a 14 anni era un dinamitardo puro: il suo disegno strategico era: “quando vengono i Deep Purple al Festival, saliamo sul capannone dell’anno scorso e tiriamo la molotov sul pubblico!”. La leggenda nera del gruppo britannico (chitarristi incendiari che danno fuoco a tutto e scappano in elicottero, smoke on the water and fire in the sky) aveva eccitato le nostre giovani menti.
Oddio, “menti” era una grossa parola.
Probabilmente la molotov non sarebbe esplosa, ma probabilmente avrebbe potuto rompere la testa a un povero metallaro, e in cima a tutti questi probabilmente resta il fatto che tre giorni prima del concerto Ciano venne a dirci che avevano finito di riverniciare la canonica di San Possidonio: l’ipotesi di recarsi nottetempo con un paio di bombolette e scrivere un mucchio di cazzate vinse sull’opzione Deep Purple. Ne abbiamo fatti di danni a quindici anni, ma poteva andarci anche peggio.

Ci ha salvato, forse, l’aver messo su un complesso: l’idea iniziale mia era spaccare un sacco di chitarre, ma poi l’evidenza che le chitarre costano ci mise per la prima volta di fronte a un qualche principio di realtà.
A quel tempo non si può nemmeno dire che andassimo al Festival: ci fermavamo ai baracconi. (A Modena le giostre si chiamano “baracconi”, magari è così in tutta Italia, ma non ne sono sicuro e nessun dizionario mi può aiutare). Ricordo molto bene un aggeggio infernale a forma di pozzo petrolifero che faceva il giro della morte, e io rinchiuso lì dentro volevo davvero morire, sentivo dietro di me Giai che bestemmiava per la prima volta della sua vita, ma io dissi solo: “ora basta”, proprio come un bambino stanco, “ora basta”, e invece continuò.
Mi posso aiutare con la musica: Listen to the beat, the beat of the sun, sun. Mano Negra, 1989. Voi non lo direste, ma per me è una canzone da autoscontro.
In realtà non eravamo neanche ragazzi da baracconi, ma in tre o in quattro facevamo il filo alla Gloria che stava nell’ultima casa di campagna, di fianco all’Inceneritore. Il secondo live del complesso lo registrammo sotto il portico di casa sua. Ho ancora la cassetta. Io ero una specie di integralista della scala pentatonica.
(Se l’avessimo saputo, che nei pressi c’era il Circolo Anarchico la Scintilla, magari ci saremmo avventurati sulla riva del Naviglio per sentire la Paolino Paperino Band: oppure lo sapevamo benissimo e non ne avevamo il coraggio, possibile).

Quindi dev’essere proprio il 1989: l’anno dopo non uscivo più con Giai, mi aveva bruciato la chitarra in una stufa a legna. Passarono alcuni anni di intensa vita parrocchiale, e in quanto privo di patente non è che potessi dire: “ragazzi, dai, andiamo al Festival!”. Stavo nei sedili dietro e mi ciucciavo la cassetta di Ligabue, che so a memoria.

E così
un altro sabato è andato così…


Ligabue è un genio, anche se non tornerò mai a un suo concerto. Ne ho visti due nel 1991 e mi bastano. Il primo in giugno in una piazzetta di Nonantola (ci andai in bicicletta!), il secondo gratis in settembre al Festival dell’Unità, ma in mezzo era successo qualcosa: non avevo più voglia di vedere un concerto. Specie di Ligabue. Dopo due pezzi andai a leggere fumetti in libreria. Mi aveva stancato il rock, i cappelli da cowboy e le scale pentatoniche, stare in piedi pigiati per due ore o sopra una panchina mi sembrava un’idiozia, e Bar Mario era un pezzo da sedicenni (I was 17). Quando poi vennero gli Heroes do Silencio, l’ostilità si tramutò in cinico disprezzo. Io e Jan decidemmo che il biondo visigoto appollaiato su un amplificatore stesse declamando “Pulivapor”, e tutta sera continuammo a cantare “Pulivapor!, Pulivapor!” con cipiglio da gruppo hard rock iberico. Tuttora se ci incontriamo e ripensiamo agli Heroes do Silencio, torna l’irresistibile ritornello di quella sera (“Puuuuulivapor, puuulivapor!”), in cui voltammo pagina sui nostri gusti musicali.

L’anno dopo, la patente, che mi costò inenarrabili sforzi, mi diede l’autonomia che agognavo: fine delle serate sul sedile posteriore, era il tempo della libertà, della solitudine, dell’angoscia. Se hai appena imparato a guidare, parcheggiare intorno al Festival è un incubo. Ci misi due ore, sudai sette camice in retrosterzo, e al ritorno mi si gelò il sangue, vedendo il bianco di un biglietto sotto il tergicristallo. Non era una multa (sarebbe stata la prima): diciamo che era un consiglio da amico.

IMPARA-A-PARCHEGGIARE
FIGLIO-DI-PUTTANA


L’ultima goccia nel vaso della mia disperazione. Non so neanche che ci fossi andato a fare, al Festival. In realtà non conoscevo nessuno, non sapevo nulla, ero appena venuto al mondo con la mia Golf del ‘74. Mi accostai al bancone della Sinistra Giovanile e chiesi… chiesi una Bud (si pronuncia Bad)
“Io… ehm… una bad”.
“Eeeeeeh?”
“Sì, una birra in bottiglia, una…”
“Aaaaaah, una bbud!”
“Sì, ecco”.

Manco una birra, riuscivo a ordinare.
Le uniche persone che conoscevo erano Glauco e Ric, perché erano molto alte e nelle assemblee di Istituto svettavano. Dopo le occupazioni della Guerra del Golfo avevano deciso di mettere su un circolo, e volevano che io facessi il Delegato Letteratura. Non so il perché.
“Allora, quand’è che vieni a fare il Delegato Letteratura?”
Per quanto ridicola, questa richiesta era l’unica prova della mia esistenza a Modena. Il Liceo era finito, L’Università partiva in novembre, Giovanna era in Canada e non le mancavo. Che angoscia. Che solitudine. Che fatica parcheggiare. La vita cominciava sempre più a somigliare a una fregatura.

Al ’93 risale il mio interesse per la programmazione culturale, un recital di Riondino con le sue canzoni brasileire che mi avevano fatto ridere in tv cinque anni prima e mi avrebbero fatto ridere un po’ meno nello stesso posto tre anni dopo. A volte non vorresti avere tutta questa memoria. E poi una sua canzone seria, torrenziale, su Mani Pulite, perché nel 1993 eravamo nell’occhio del ciclone. Ma cosa dirò ai miei nipoti, quando mi chiederanno di Mani Pulite?
“Mah, la vita continuava, la gente andava al Festival ad applaudire Greganti, tutto regolare”.

Il terremoto venne piuttosto l’anno dopo.
In spiaggia, d’estate, si sentivano le cannonate da Spalato: un circolo di volontari di Camposanto era riuscito ad appaltare lo stand gelateria Sammontana, e i proventi andavano in Bosnia. Così, quando ci chiederanno: “tu dov’eri mentre bruciavano Sarajevo”, io e Jan potremmo anche rispondere “facevamo i coni al Festival dell’Unità”. Non era così facile come potrebbe sembrare: la nocciola, per esempio, era durissima, la vaniglia estremamente liquida, amalgamarle era impossibile, il cono ti crepava nelle mani.

“Mi fa nocciola e vaniglia, per favore?”
“La nocciola non c’è”.
“Come non c’è, e quella lì”.
“Quella… quella non è proprio nocciola, cioè… è ancora dura, vede… (la percuote con la spatola), bisognerebbe aspettare un po’. Con la vaniglia, se vuole un consiglio, ci sta bene la stracciatella”.
“Ma qui non c’è uno che sa fare i gelati?”
“Ci sono io, signora”.

Una sera qualcuno mise in giro la voce che avremmo dovuto fare un cono a Bobo Maroni, Ministro degli Interni. Ma non venne mai.
Infine, quello fu l’anno di Montanelli, che radunò la folla che di solito è riservata al comizio del segretario.
Montanelli sul maxischermo del Festival di Modena è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Cosa possiamo sapere del nostro futuro, se in quello di Montanelli c’era una folla di ex comunisti osannanti? Io avevo sempre litigato coi genitori democristiani, coi professori ciellini, con gli amici forzisti, ma soprattutto con la parte di me stesso che era cresciuta leggendo Montanelli. Ed ecco che io e mio padre ci trovavamo a far la croce sullo stesso simbolo, e Montanelli parlava al Festival tra applausi e ovazioni. Avevamo perso, ma avevamo perso tutti assieme. Non siamo mai più stati così uniti.
Sembrava che nulla sarebbe stato come prima. (Continua parecchio)
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